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4. SAN SEBASTIANO E IL LEONE
Apri gli occhi ora. Lo farò. Un momento. E’ tutto scomparso da allora? Se li riaprissi e rimanessi per sempre
nel nero diafano. Basta! Voglio vedere se posso vedere.
Adesso vedo.
(J. Joyce, Ulisse, Mondadori, 1998, p. 38)
Sebastiano aveva quasi 12 anni ed era arrivato da due giorni quando ho iniziato a lavorare all’Antenna 112 di Marghera. Passava gran parte del tempo a tirarsi la sabbia in faccia, a buttarsi a terra, rompeva vetri e oggetti vari, andava in giro nudo, si toccava il pisello, si picchiava, dava calci e testate. Il primo contatto con lui è andato più o meno così. Lui gridava, si disperava steso a terra tirando calci a chi si avvicinava, poi si è alzato e mi è venuto vicino chiedendomi dolcemente:
– Quando viene il mio papà?
Mi ha messo le braccia intorno al collo, ha accennato una carezza e… zac! Una testata fortissima!
Sebastiano ripeteva continuamente la stessa domanda: “Quando viene il mio papà?” La ripeteva come una cantilena, oppure parlava con voce grave e tonalità decisa:
– Sebastiano ti ammazzo!
Non devi scappare più!
Dov’è la stampella?
Sebastiano sei proprio pazzo!
Sebastiano sembrava ripetere le frasi che deve avergli gridato contro il padre. Prima di arrivare a Marghera, Sebastiano viveva con suo padre che lo picchiava, anche quotidianamente, come veniva confermato da diverse denunce, tra cui quella per avere picchiato il figlio in un supermercato, per averlo tenuto chiuso in automobile per 8-10 ore durante una corsa di ciclismo, per averlo buttato dal secondo piano…
La madre, immagine della donna oggetto, sexy e fragile, aveva avuto da un altro matrimonio una figlia, si era poi separata e aveva avuto una relazione e una convivenza burrascose con l’uomo con cui aveva concepito Sebastiano. La loro unione era stata costellata di liti, scenate anche tra l’uomo e sua madre, rigida e religiosa. I servizi si erano occupati piuttosto presto della famiglia, Sebastiano era stato istituzionalizzato (con diagnosi di schizofrenia grave) più volte e piuttosto precocemente, anche se la sua situazione era peggiorata da quando la madre aveva lasciato la casa e viveva con un altro uomo. Gli istituti che avevano precedentemente ospitato e seguito il bambino non erano stati in grado di accoglierlo che per periodi brevi, che non erano andati oltre i due mesi.
Al momento dell’arrivo all’Antenna la patria potestà non era stata tolta al padre, anche se il giudice aveva deciso per il ricovero senza l’autorizzazione del padre. Forse non è neanche semplice la posizione di un giudice che abbia di fronte una serie di comunità che non reggono il bambino per più di due mesi e una serie di denuncie contro il padre; la madre d’altra parte aveva paura anche di restare sola per qualche minuto col figlio.
Nei rari momenti dei primi giorni in cui Sebastiano si tranquillizzava, chiedeva di fare il bagnetto, che sembra facesse molto spesso quando viveva con la madre. Chiedeva:
– Mi fai il bagnetto?
Oppure voleva mangiare, soprattutto latte con quintali di cacao. Andava continuamente in bagno, spesso dicendo:
– Mi scappa la pipì!?
L’intonazione sempre un po’ interrogativa e un po’ no, musicale. Più spesso se la faceva addosso o a terra. Inoltre s’infilava in bocca di tutto, sabbia, acqua, schiuma… Quando ero con lui sgridavo, o tentavo di sgridare questo Altro che sembrava tormentarlo, che lo faceva picchiare, rompere, distruggere tutto e mangiare sapone. Nonostante Sebastiano sembrasse spesso incontenibile, soprattutto all’inizio e con l’avvicinarsi delle visite del padre, di solito sembrava contento di assistere a queste grandi scenate grottesche ai danni di muri, vestiti, sabbia, schiuma… Sembrava calmarsi improvvisamente e sorrideva guardandoti di sbieco. Un giorno lui continuava a divertirsi di queste sgridate, mentre era nella vasca continuava a mettersi appena un po’ di schiuma in bocca (all’inizio beveva il bagnoschiuma direttamente dalla confezione!). Io urlavo alla schiuma di non permettersi di entrare nella bocca di Sebastiano e lui rideva ripetendo il mio gesto di lanciare la schiuma contro le mattonelle. Dopo una serie di ripetizioni ero un po’ stanca e mi sono seduta sulla tazza del bagno, lui si è rimesso la schiuma in bocca e io… ehm… ho fatto finta di non vedere, allora lui mi ha sbirciata con la coda dell’occhio, io continuavo a fare la vaga, si è voltato verso di me con le bollicine sulle labbra e mi ha detto:
– Guarda!
Ero stupita, era la prima volta che mi si rivolgeva, (senza chiedere: “Quando viene il mio papà?”) sono stata costretta a rialzarmi e a sgridare ancora questa schiuma dispettosa. Quando è arrivata Rossella, un’altra operatrice, Sebastiano ha detto:
– Voglio sognare che vomito per terra e qualcuno mi dà una botta fortissima.
Poi, in cucina, dopo che avevo sgridato un oggetto a cui aveva tirato un calcio, mi ha passato una presina e si divertiva mentre le urlavo.
Durante la mia prima notte all’Antenna si è svegliato alle 3, ma dopo dieci minuti, è tornato a letto. La mattina all’alba si è svegliato nel panico, aveva fatto la pipì per terra come sempre e urlava.
– Dio porco, Sebastiano sei proprio pazzo!
Allora ho iniziato a sgridare anche queste parole. Alcuni giorni dopo, mentre era nella vasca, si divertiva a ripetere queste frasi minacciose e ad ascoltare le mie urla. Lui ricominciava:
– Dio porco…
– Dio e Porco tutti e due fuori dall’Antenna!
Allora sorridendo mi ha detto:
– Dio cane!
– Anche i cani adesso, fuori di qui!
Allora lui sempre sorridendo, dolcemente:
– Puttana.
E sono uscita.
Questo è stato il nostro primo dialogo!
Presto avrebbe iniziato a dire “stai di là te!?” quando voleva restare solo in una stanza. Più noi ci sottoponiamo a delle regole più loro sono liberi di mangiare, andare al gabinetto… Senza essere costretti a sottrarsi continuamente.
Si tratta di dire di sì al soggetto, ma con un soggetto in posizione psicotica si tende a non uscire dal campo del soggetto.1
L’operazione di distanziamento costituisce il primo tempo: dire di sì al soggetto/dire di no all’Altro.
1 Lacan ha pensato al dispositivo della passe, che come ha detto Naveau, ha la stessa struttura del motto di
spirito, nella definizione che ne dà Freud. A dice una cosa su B che fa ridere C.
Nel lavoro con l’autistico si fa una battuta dove B è l’Altro, ovvero si gioca nel campo del soggetto. (vedi p.
74).
Nel secondo tempo ci può essere l’elaborazione di un sapere, che però per Sebastiano, allora, non si è realizzato che in piccola parte. Dopo un po’ di tempo Sebastiano ha iniziato a dire:
– E’ il mio papà che mi dà le botte.
Un giorno, mentre andava distruggendo tutto, ma con meno fervore dei primi tempi, gli ho dato in mano gli acquerelli e l’acqua. Ha fatto un bel disegno astratto su un cartoncino, poi ha continuato le sue scenate.
Ho dato tanta importanza a quel disegno, l’ho lodato e l’ho messo in bella vista. Lui semplicemente se ne è fregato! Eppure un paio di giorni dopo lo ha preso in mano senza romperlo mentre si disperava, allora gli ho chiesto:
– Dov’è il disegno di Sebastiano?
– Eccolo!
Mi ha risposto mostrandomelo. Nello stesso giorno mi ha detto:
– Adesso scrivo.
E si è messo seduto tracciando delle A/H in serie, che sembravano delle grida, ma chi potrebbe
dirlo se non lui? Sempre lo stesso giorno mi ha chiesto:
– Da grande picchio i bambini?
E poco dopo mi si è avvicinato e guardandomi negli occhi mi ha detto:
– Sono il pensiero di Gesù
non sono ancora nato il mio papà è piccolo, è a scuola
…
Viene il papà piccolo?
Accenno di metafora a partire da un significante materno? La mamma gli diceva spesso: “Come sei bello, sembri Gesù bambino!” Lo stesso giorno l’ho visto per la prima volta tranquillo giocare a pallone in cortile; lanciava dei calci forti e decisi al pallone e mi urlava:
– Sono bravo?…
Sono bravissimo?…
Guarda, maestra, sono bravo?
Le sue domande col tempo diventavano più varie, non chiedeva più solo “Quando viene il mio papà?” ma …
– Che ora è? / Siamo a ottobre adesso? / Quanti giorni ho dormito qui? / Sta male il mio papà?
/ E’ a casa?
Lo conosci il mio papà?
– No.
– Ha gli occhiali arancioni il mio papà che a me mi piacciono.
Chiedeva spesso l’età, ma solo agli uomini. Più tardi ha iniziato a domandare:
– Quando porto la macchina? / Quando vengono diciotto anni? / Quando ho 18 anni, dove sto?…
Che lavoro faccio da grande?
– Che lavoro vuoi fare?
– Muratore… i telai.
Dopo circa una settimana che stava all’Antenna, Sebastiano aveva cominciato a raccontare e alcune di quelle frasi persecutorie potevano sembrare più chiare, un giorno ha detto:
– Il mio papà me ne dà tante con le stampelle,
poi ha aggiunto con voce grave:
– Non scappare più capito?
– Chi è scappato?
– Io sono scappato dalla banca/
sono scappato in piazza Verdi/
il mio papà mi ha dato le botte/
Sebastiano sembrava utilizzare gli operatori per pacificarsi; sempre più raramente si faceva del
male, molto spesso accennava a tirarsi la sabbia in faccia oppure chiedeva:
– Mangio la schiumetta?
– Sebastiano può anche non mangiare la schiumetta.
Se accennava a buttarsi a terra:
– Sebastiano può benissimo stare in piedi se vuole.
Un giorno mi ha detto:
– Mi sono tirato la sabbia in faccia, ma nel mio pensiero.
Ecco una sostituzione, invece di farlo lo dice, il dire, il mettere in parole, sostituisce il fare, il passare all’atto. Qualcosa del genere era già successo, “voglio sognare che vomito per terra e qualcuno mi dà una botta fortissima”, aveva detto a Rossella, forse allora più una dichiarazione d’intenti che una conquista.
Dopo la prima visita del padre mi ha chiesto:
– Quando viene il mio papà?
– Sebastiano lo sa quando viene il suo papà.
– Venerdì?
– Sì, venerdì.
– Quando viene venerdì il mio papà mi porta a casa?
– No, viene solo a trovarti.
– Parla con me?
– Sì, parla con te, poi va via e tornerà a trovarti.
Sembrava soddisfatto e si è rimesso a giocare a pallone, ancora rigorosamente da solo. Dunque, riassumendo le puntate precedenti, da quando era arrivato all’Antenna, Sebastiano sembrava avere continuato a lavorare per distanziarsi dal godimento dell’Altro. Aveva smesso di chiedere continuamente: “Quando arriva il mio papà?”, aveva diminuito moltissimo il numero dei bagnetti, aveva quasi smesso di spogliarsi, di mettersi per terra, di gettarsi violentemente la sabbia in faccia; inoltre erano diminuite le pipì in giro per l’Antenna e soprattutto nella sua camera.
Le domande erano molto varie:
– Come si fanno i sogni? / Quando si muore ci sono i sogni? / Se non sogno viene lo stesso
mattina? / Le luci si ghiacciano quando si spegne il sole? / Dio mi ha messo il cervello?
Voglio andare da dietro degli anni / Non si va da dietro degli anni? / Se vado da Dio e gli
chiedo di andare da dietro degli anni, mi dice di no? Quando andavo nel pensiero di Gesù /
potevo andare da dietro degli anni? Voglio andare da dietro degli anni, a scuola, alle elementari.
Una volta era venuto un visitatore all’Antenna, Sebastiano lo ha guardato, gli ha chiesto come si chiamava e quanti anni aveva, poi indicandolo:
– Se dormo tanto mi sveglio così?
Le domande di Sebastiano sono richieste di verifiche, vuole continuamente accertarsi se l’Altro sa, se è regolato. In alcune domande, ad esempio “se non sogno viene lo stesso mattina?” è più evidente come Sebastiano cerchi di assicurarsi che l’ordine dell’universo, il simbolico, tenga, funzioni, indipendentemente da quello che capita a lui, il ciclo luce-buio, la successione delle ore, che il posto del possibile sia ben separato da quello dell’impossibile, che perfino Dio si regoli facendo a meno di lui.
Poco tempo dopo il suo arrivo all’Antenna, Sebastiano aveva preso a raccontare, più volte, una storia, che variava e si allungava e suonava come una costruzione fantasmatica:
– Qualcuno mi ha gettato dalla finestra / Un bambino di nome Leo mi ha gettato dalla finestra
/ sono andato a casa degli altri e ho vomitato per terra / e qualcuno mi ha gettato dalla finestra
/ e c’era anche una bambina che mi ha menato.
Qualcuno mi ha gettato dalla finestra/
c’era un cagnolino e mi ha mangiato/
tre volte mi ha mangiato/
e c’era anche un accendino/
con il gas/
e mi sono bruciato.
Qui c’è una lampante rappresentazione dell’Altro nella psicosi, la sua ferocia, la sua mancanza di regole, il suo capriccio senza limiti, può buttare dalla finestra, bruciare, divorare… Contemporaneamente agli sviluppi della storia, Sebastiano ha incominciato a gettare degli oggetti dalla finestra. E’ venuto spontaneo di mettere in relazione questi fatti con la denuncia al padre che era stato visto da estranei mentre gettava dalla finestra Sebastiano. Tanto più che le ultime versioni erano:
– Un papà di nome Giovanni ha buttato un bambino dalla finestra / Sono pieno di botte, sai
io!? Me ne ha date tante il papà.
Gettando gli oggetti dalla finestra Sebastiano cerca di introdurre una mancanza, una castrazione nel luogo dell’Altro in cui è preso, luogo che altrimenti sarebbe senza limiti di ingordigia, potere e potenziale distruttivo. La manovra sembra raffinarsi col tempo, tanto da non richiedere più l’atto. Una volta, in montagna Sebastiano mi ha detto:
– Ho gettato gli oggetti dalla finestra, vieni a vedere.
Quando ho guardato sotto alla finestra, non ho trovato nulla sulla neve. E lui, sorridendo,
– Me li hanno rubati.
Spesso Sebastiano fingeva di dormire e iniziava a russare. Allora io:
– Tanto sonno?
– Sìì!
– Sonno gigante?
– Sìì!
Abbiamo cominciato a scambiarci queste battute ogni volta che lui fingeva di dormire, come un tormentone.
Una volta, passeggiando in montagna, ho visto un grande albero di Natale e gli ho detto:
– Che albero gigante!
– Sonno gigante?… Ti è venuta una colpa di sonno?
Tornati all’Antenna Sebastiano faceva finta di dormire. Gli ho chiesto secondo rituale:
– Tanto sonno?
– Sìì
Poi mi si è appoggiato sulle spalle.
– Quanto pesa questo ragazzo!
– Quanto pesa il sonno?
Ho tergiversato:
– Che domanda difficile, non lo so quanto pesa il sonno, potremmo informarci…
– Una colpa! Il sonno pesa una colpa!
Di ritorno dalla montagna dove io e Sebastiano abbiamo trascorso a Natale quattro giorni con un’altra comunità, la Chiari, era di turno Rossella. Sebastiano sarebbe andato dal padre per 3 giorni a capodanno, in quanto la comunità non poteva garantire la presenza di operatori per tutta la durata delle feste di Natale. Sebastiano prese a chiedere continuamente:
– Quando vado dal papà?
Alla stessa domanda gli avevamo risposto spesso in modo impreciso, contraddittorio e imbarazzato. Rossella, quel giorno lì, gli ha risposto di sì, che sarebbe andato dal padre.
Ad un certo punto Sebastiano le ha detto:
– Tu stai qua. (Nell’ufficio).
Lei ha obbedito, ma dopo un minuto, ha sentito un rumore, è andata e ha trovato Sebastiano che rideva e diceva:
– Voglio andare all’ospedale.
Aveva gettato a terra i piatti di ceramica dell’armadio e cercava di prendere i pochi superstiti. Rossella ha urlato contro chi gli faceva fare queste cose, ma lui continuava, allora l’ha preso per un braccio ed è andata a chiedere aiuto alla Chiari, la comunità adiacente all’Antenna. Appena rientrati Sebastiano ha preso un pezzo di piatto e lo ha tirato contro l’operatrice prendendola in pieno sulla coscia.
Uscito in giardino, si gettava violentemente la sabbia in faccia, poi, tornato finalmente calmo, voleva fare un bagnetto. Nell’acqua ha chiesto:
– Vado a casa dal mio papà?
Rossella mi ha chiamata a casa e, quando sono arrivata, lei è riuscita finalmente ad andare al pronto soccorso, dove le hanno messo due punti.
Ho provato a sgridare chi aveva costretto Sebastiano a buttare i piatti a terra, ma lui ha risposto:
– Sono stato io, io ho buttato i piatti per terra!
E si è messo ad aiutarmi mentre raccoglievo i cocci.
– Sai cos’ho? Sono arrabbiato. Per forza che butto i piatti, perché mi hanno buttato dalla finestra!
Ha pianto a lungo disperatamente e ha fatto espliciti riferimenti al fatto che ha ferito Rossella:
– Che cosa mi fa il mio papà?
Più tardi:
– Voglio tutto, voglio tutto, ma non so che cosa è tutto.
Poi, dopo un po’:
– Voglio tutto, voglio tutto, sai che cosa è tutto? E’ prendere un bicchiere e fare così, così, così
(e muove il braccio come se spaccasse un bicchiere contro al muro) finché non si rompe.
Il giorno dopo Sebastiano ha rotto una tazza e ne ha tirato un pezzo a Mariella, poi è tornato dal padre. Tre giorni dopo, appena arrivato all’Antenna:
– Ciao, sono qui, sono stato tanti giorni dal papà?
E’ restato agitato tutta la mattina.
Il 6 gennaio ha telefonato il papà, che non perdeva occasione di fare domande, avanzare pretese e minacciare gli operatori. Sebastiano ha chiesto insistendo di fare un giretto, ha preso una tazza e l’ha rotta, poi con un pezzo di tazza ha cercato di farsi male sulla pancia. Si è calmato e ha detto a Nico che si voleva tagliare il pisello. Poi ha preso un pezzo di tazza si è sfregiato abbondantemente la pancia nel “punto della crescitura”, sembrava calmo e per un’ora ha cercato di allargarsi le ferite, l’unico momento in cui è rimasto solo ha frantumato un altro bicchiere.
Il 10 gennaio Sebastiano ha spaccato una bottiglia di pomodoro e si è fatto di nuovo male alla pancia, ha detto:
– Chiamiamo l’ambulanza?
Il 16 ha preso un altro pezzo di vetro per tagliarsi la pancia. Ha telefonato il papà, Sebastiano ripeteva:
– Devi dirlo tutti i giorni al dottore, non dimenticarti mai di dirglielo che non ti piace stare lì. Diceva anche che voleva tornare indietro con gli anni e si toccava la pancia, nel punto della “crescitura”.
L’ultima settimana di gennaio ripeteva:
– Voglio andare in ambulanza / Andiamo in ospedale? / Voglio un’ambulanza per salirci
dentro, perché sto male / Voglio andare in ambulanza perché ho gli occhi.
Mi dai le forbici, che dopo non mi taglio?
Ha rotto una lampadina e con i vetri si è tagliuzzato le palpebre. Sebastiano era tornato aggressivo, disperato e ora anche pericolosamente autolesionista, l’unica cosa che chiedeva di fare era un giretto in macchina, dove si copriva completamente la testa con la giacca.
Il primo tempo del lavoro è un’operazione di distanziamento del soggetto dall’altro; per Sebastiano la pacificazione non si è realizzata che precariamente in quanto non si è riusciti a tenere a distanza il padre. Sebastiano aveva appena iniziato a costituirsi come soggetto occupando il posto vuoto che gli lasciavano gli operatori.
5. LA LEGGE E L’ONORE
Io penso che il pensiero sia in fin dei conti un invischiarsi2
(J.Lacan)
Pensare ti serve come masticare gomme (canzone hip-hop)
Da Capodanno Sebastiano aveva ripreso a chiedere continuamente “quando vado dal papà?” Ripeteva quella domanda in un’angoscia dilaniante, probabilmente, nella speranza che gli garantissimo che non ci sarebbe andato, presto aveva cominciato a chiedere di andare in ambulanza o in ospedale, in una manovra di separazione per uscire dall’alienazione persecutiva nel padre. Come dice J.-A. Miller, lo psicotico è nell’alternanza tra alienazione e separazione.
“Ricordate Schreber è costretto costantemente a pensare, e quando sorge il pensare-a-niente, allora si produce l’irruzione del fenomeno di godimento, l’urlo catastrofico. E’ evidente che questi due momenti, quello della costrizione a pensare e quello del pensare-aniente che determina l’irruzione del fenomeno di godimento, si ricalcano esattamente sull’alternanza alienazione-separazione. Il momento del pensiero obbligato è una alienazione, in qualche modo, compulsiva: legarsi all’Altro, restare legato tramite il pensiero alla catena significante, non mollarla, non per un impulso naturale ma per una costrizione, sottomessa a un imperativo drammatico. Il pensare-a-niente, in cui si inserisce l’urlo è invece la versione schreberiana della separazione.”3
La rottura dei piatti e l’aggressione a Rossella sono passaggi all’atto in cui Sebastiano tenta di realizzare la sua divisione davanti al fatto che deve tornare dal padre, nel luogo dell’Altro persecutorio. I piatti sono lui stesso, buttare i piatti a terra è essere lui stesso buttato, lanciato dalla finestra.
2 J.Lacan, “Il sintomo”, 1975, in La Psicoanalisi n. 2, Astrolabio, Roma, 1987, p. 13
3 Aa. Vv., La conversation d’Arcachon, 1997, trad. it. Astrolabio, Roma, 1999, p. 201.
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Una volta che Sebastiano è tornato a casa per capodanno, il padre prende sempre più spazio, anche tramite il telefono, è presente con la sua voce per il figlio, anche se non la sente direttamente. Sebastiano dice di volersi tagliare il pisello, appello alla castrazione, tentativo di porre un limite alla presenza reale dell’Altro paterno. Sebastiano passa di nuovo all’atto sul suo corpo, si taglia sulla pancia.
L’istituzione stessa, in qualche modo messa in scacco dal padre, sembra non aiutarlo abbastanza a ripararsi dalla presenza intrusiva: ecco allora il ricorso in s.o.s. per il soggetto all’ambulanza. Il padre, intrusivo, dice ciò che Sebastiano deve dire, spinge il figlio all’alienazione folle: “Devi dirlo tutti i giorni al dottore, non dimenticarti mai di dirglielo che non ti piace stare lì”. Sebastiano tenta l’introduzione di una mancanza, sull’oggetto sguardo, tagliuzzandosi le palpebre. Ennesimo passaggio all’atto sul proprio corpo come corpo dell’Altro, dopo una breve parentesi in cui l’aggressività era anche sugli operatori. La soluzione è una metonimia, realizzareun cortocircuito; in macchina Sebastiano ‘barra lo sguardo’ coprendosi con la giacca, provando a stendere un velo sullo sguardo.
L’epilogo di questo caso è triste, dopo sei mesi dal suo ingresso all’Antenna, Sebastiano è statodimesso. Si è preferito decidere in questo senso in quanto la comunità non era più in grado di contenerlo.
La prima stesura del caso risale a ottobre 1998, dopo due settimane che lavoravo all’Antenna. C’è stata una nuova stesura il 19 02 1999 a due mani con Rossella De Stefani; si chiamava “Che cosa stiamo sbagliando?” Mi rendo conto che la scelta del titolo oltre che provocatoria era anche una richiesta di maggiore luce sulle dinamiche istituzionali che con noi componevano l’ampio insieme degli specialisti, assistenti sociali, educatori… ecc… che avevano o avevano avuto a che fare con Sebastiano.
In seguito il caso è stato presentato da Martin Egge, responsabile terapeutico dell’Antenna 112, alla Conversazione di Roma e commentato da Miller, che ha sottolineato la follia del padre come principio della follia del figlio. Inoltre ha detto, come veniva già osservato nella stesura del caso del dottor Egge, che l’epilogo della storia era stato deciso in larga parte dal diritto, piuttosto che da questioni cliniche.
“Il padre, che due settimane prima aveva visitato il Centro con suo figlio, non dà il suo consenso per l’inserimento. Ma dal momento che non c’è un’altra struttura disponibile ad accogliere A. il giudice del Tribunale per i Minorenni decide il ricovero coatto, viste le numerose denuncie fatte al padre per presunti maltrattamenti del figlio. (…) Purtroppo una certa ambiguità da parte del giudice, che da una parte lascia al padre la patria potestà e, dall’altra, gli allontana il figlio senza preavviso, compromette in modo sempre più evidente le condizioni necessarie per rendere innocuo quello che per A. costituisce l’Altro
persecutore.”4
Un’altra questione poteva avere aggravato la situazione, il nostro imbarazzo e la nostra imprecisione nel dare le informazioni, anche per un tentennamento nell’accordarci. Anche perché noi operatori non sapevamo che fare ed effettivamente non si sapeva cosa fare. L’istituzione doveva difendersi dalle minacce del padre perfino senza garanzia legale. Gli operatori non si sentivano protetti così come i direttori.
Credo che questo caso sia emblematico, la corrispondenza anche troppo perfetta tra la conferma di certi atti persecutori del padre nei confronti del figlio e alcune azioni e frasi del bambino mostra come il soggetto in posizione psicotica sia sempre in condizione di doversi difendere dal godimento dell’Altro non barrato, che sa tutto e che è sempre presente. Sebastiano ha subito, come tutti, le disorganizzazioni del godimento dovute al linguaggio, ma non è riuscito ad articolare significante e significato in modo tale da rendersi gestibili le pressioni della pulsione.
Appena arrivato all’Antenna reagiva violentemente, ma non si feriva né aggrediva direttamente le altre persone, tranne nel caso della testata. In effetti quel primo colpo, che ha continuato a dolermi per almeno tre ore, poteva anche essere il segno di una scelta, di una convocazione, anche se così violentemente nel reale.
Solo nell’ultimo periodo la mancanza di garanzia, la confusione, l’ambiguità e anche la paura, daparte dell’istituzione, rispetto agli incontri col padre, hanno provocato una successione di violenti passaggi all’atto. I tagli sul corpo, dichiarati (tagliarsi il pisello) e realizzati (le palpebre ei tagli alla pancia) possono essere letti come tentativi di castrarsi nel reale, di addomesticare l’insopportabile. Non a caso riguardano punti strategici dell’organismo, il pisello, ma anche le palpebre, “voglio tagliarmi perché ho gli occhi”, oltre alla pancia, Sebastiano indicava un punto al di sotto dell’ombelico, che chiamava della “crescitura” forse con la vana speranza di andare
4 M. G. Egge, “il bambino psicotico e il suo Altro persecutore, in Conversazione di Roma, Istituto Freudiano,
9-10 ottobre 1999.
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“da dietro degli anni”, magari al tempo delle elementari, quando ancora la mamma viveva col padre e forse l’esistenza era più tollerabile.
Con questi ritorni a strategie brutali sembravano vanificati mesi di lavoro sulla via della pacificazione, ripercorriamone i passi. Appena arrivato all’Antenna, Sebastiano parlava di sé in terza persona, insultandosi e minacciandosi, fatta eccezione per la domanda: “Quando viene il mio papà?” La questione lo angosciava e cercava continue rassicurazioni che il padre sia regolato da qualcuno.
“Dio porco Sebastiano ti ammazzo”. Sebastiano era ostaggio del padre, guardato, divorato, cagato, goduto e parlato.
C’è un momento che credo possa segnare un punto di svolta, ed è il nostro primo dialogo, che è stato anche uno dei punti della prima breve stesura del caso, che ha letto Virginio Baio a Roma, nel corso dei seminari dell’Istituto Freudiano. Il suo commento è stato fondamentale, in quanto mi ha consentito di sentirmi garantita rispetto al mio intervento. Sebastiano è parlato dall’Altro, infastidito e insofferente al suo continuo borbottio o alle sue grida(“AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH”). Aveva effettivamente senso mettersi a sgridare le parole, ma solo dopo il commento mi si è spiegato il senso della formulazione:
“Anche Dio e Porco, tutti e due fuori dall’Antenna”. Non avendo fatto legame tra S1 e S2, cioè tra dio e porco, avevo dato mostra di una posizione che è quella di sapere-non sapere, che implica dire di no all’Altro e sì al soggetto. Il “Puttana” finale di Sebastiano rappresentava un tranello per me e il fatto di ripetere la stessa modalità – fuori le puttane dall’Antenna! – e soprattutto di uscire subito dopo dal bagno dov’era il ragazzo equivaleva a dire: guai a chi ti obbliga, me compresa. Per avere una posizione di non sapere occorre ovviamente sapere. Che cosa? Che in Sebastiano c’è un soggetto, che sebbene non separato, sebbene soggetto-parlato, ha le sue questioni.
“Quando viene il mio papà?!” Non dimenticherò mai l’intonazione di quella domanda, sempreun po’ interrogativa un po’ no. Possiamo dire che la questione di Sebastiano fosse il padre. Non sappiamo che cosa sarebbe successo se si fosse liberato del padre e della sua follia. Se è l’Altro ad essere malato sembra immediato comprendere la cura, è per questo che occorre seguire un certo numero di regole, che valgono per gli operatori e consentono l’incontro con un Altro regolato, per permettere la creazione. Dice Miller in “La lezione della psicosi”5: “…mi pare che
5 J.-A. Miller, “La lezione della psicosi”, in La Psicoanalisi n. 4, Astrolabio, Roma, 1988, p. 70.
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la via indicata da Lacan per il trattamento della psicosi passi per questo aspetto, centrale in Schreber, che è quello della creazione, e la cui invenzione di sapere è dopo tutto solo una rubrica.” Sebastiano si è messo ad elaborare, una volta ha scritto, si è messo a dipingere in modo originale. Si è messo a fare domande, molte su quelle categorie con cui di solito si misura il tempo: notte/giorno, anni, mesi, settimane, ore… Probabilmente un tentativo di darsi un ordine, una cornice temporale, visto che sembra vivere in una sorta di eterno presente, quasi sempre infernale.
Piano Sebastiano si è concesso di parlare di sé in prima persona e direttamente del suo Altro persecutore, fosse il padre che lo ha maltrattato o creature non proprio visibili, tipo:
– E’ la suora che mi da le botte. E’ lì la suora!
E indicava un angolo dell’Antenna che aveva tutta l’aria di essere vuoto, e qui possiamo parlare di allucinazioni visive, della localizzazione di un Altro intrusivo.
Cominciando a parlare, piano, ha iniziato a sostituire il fare con il dire, il passaggio all’atto con una forma di sembiante. L’episodio più divertente è stato quando, dopo avermi detto di avere gettato i vestiti dalla finestra, mentre guardavo perplessa di sotto, mi ha detto:
– Me li hanno rubati!
Con Ambrogio la relazione si era instaurata all’inizio con me, ma si era estesa presto agli altri adulti e cominciava a comprendere i coetanei. E’ con stupore che lo abbiamo visto giocare a calcio con due bambini, uno dei quali gli gridava entusiasta:
– Bravo!